Eterosessualità Queer, Omosessualità Straight
Riflessioni Linguistiche per Politiche Consapevoli
Ehi tu!
Prendi una bella sedia comoda, siediti e fai attenzione, perchè oggi andiamo un po’ international e affrontiamo una questione molto sottile, che interseca usi linguistici inglesi e italiani. Infatti il lessico della comunità LGBTQ* è per gran parte di derivazione statunitense, e si innesta su una lingua - l’italiano - che a sua volta possiede una storia così come degli usi linguistici codificati e stratificati nel tempo. Per questo motivo mi sembra interessante provare a riflettere sulla storia delle interazioni tra questi due linguaggi, almeno per ciò che ci riguarda direttamente.
Ovviamente stiamo parlando di un percorso di influenza quasi a senso unico, ed è fondamentale riconoscere come sia stato l’inglese ad influenzare l’italiano, e non viceversa. L’italiano del primo 1900 (anche se parlare di “italiano” nel primo ‘900 è un po’ una forzatura) arrivava con un pacchetto di termini descrittivi dell’omosessualità che appartengono unicamente alla categoria degli insulti - come “frocio”,”finocchio” o “ricchione” ed altre forme dialettali - ed è importante notare come invece la quasi totalità sia delle lotte politiche che delle ricerche scientifiche siano di impostazione anglofona. E’ pertanto prevedibile che sia i termini di uso comune che quelli medici tenderanno ad essere riproposizioni - o esatte traduzioni - dei concetti in uso nella lingua inglese.
Prima di attaccare il centro del nostro discorso - che verterà attorno ai concetti inglesi di queerness e straightness - vorrei individuare alcune aree di significato che andremo a considerare nella nostra analisi linguistica.
Direi che sono almeno tre, e ne aggiungeremo una quarta in seguito: l’area medico-psichiatrica, l’area del lessico “comune” e infine l’area del lessico “offensivo”. In quest’ultima area, ci tengo a specificare, includo solo i termini che vengono usati come offesa, a prescindere dal modo in cui vengono ricevuti.
Ad esempio, tre “sinonimi”, presi da ognuna di queste aree di significato potrebbero essere: “omosessuale”, “gay” e “frocio”. Possiamo già notare, fra le altre cose, che la parola standard usata in italiano - cioè “gay”- non è affatto una parola italiana.
Parole come “gay” o “lesbica” sono entrate a far parte del lessico comune perchè sono le parole che sono state scelte dalle comunità e che sono utilizzabili senza connotazione negativa, altre parole come “omosessuale” o “trans” sono entrate a far parte del linguaggio standard passando dall’ambito medico, mentre alcuni termini hanno subito un processo di assimilazione differente, o non l'hanno subito affatto: arriviamo quindi ora a collocare nella lingua le due parole che guideranno la nostra riflessione di oggi, overo Straight e Queer. Sono due parole che formalmente appartengono a quello che abbiamo informalmente definito “lessico comune”, in quanto letteralmente descrivono delle forme: Straight significa infatti “dritto”, e Queer significa “storto”. Metaforicamente, dritto e storto vengono utilizzate per descrivere comportamenti sociali giusti (dritti) e sbagliati (storti). Pertanto non sorprenda se in un contesto fortemente omofobo come quello anglofono dell’800 (sia USA che UK), queste parole finiscano ad inividuare i comportamenti sessuali giusti, cioè straight, cioè eterosessuali e quelli sbagliati, cioè queer, cioè omo e bisessuali, andando pertanto a finire a pieno titolo nell’area del “lessico offensivo”.
Occorre ora introdurre la quarta e ultima area di significato di cui mi interessa trattare, cioè quella del lessico della Riflessione Politica. Parlando di queerness e straightness, fin qui abbiamo parlato tacitamente assumendo il punto di vista straight - è infatti la comunità straight ad avere iniziato questi due usi linguistici - ma la faccenda si può considerare dalla prospettiva completamente opposta, considerando quindi non il punto di vista di chi si sente straight, ma quello di chi viene dall’esterno inserito nella categoria queer. E’ proprio nell’ottica della riflessione politica che la comunità LGBT inizia ad operare azioni come la Risemantizazione e la Rivendicazione, ed in questo contesto avviene il primo vero e proprio cambiamento di significato del termine queer. A seguito dei moti di Stonewall la comunità ha imparato gradualmente a riscoprire l’orgoglio di essere ciò che siamo: per fuggire dalla vergogna, in fondo, l’unica cosa che si può imparare è proprio il sentimento di fierezza per la propria identità. Così passo passo abbiamo imparato l’orgoglio di essere gay, trans, intersex e via dicendo, e così abbiamo imparato anche l’orgoglio di essere semplicemente Queer. Nel 1990 viene pubblicato il The Queer Nation Manifesto, che una volta per tutte, per così dire, rompe la quarta parete, e dice a gran voce che essere queer non solo è una cosa legittima, ma è una cosa bella, rivendicando che l’essere “storti” in un mondo sottosopra forse non è poi così male. In quest’ottica perciò la queerness sembra declinarsi quasi come una generale non conformità al sistema di riferimento (qualunque esso sia), e pertanto non dovrebbe sorprendere che le prime persone a rivendicarsi la propria queerness non furono genericamente persone “gay”, ma furono specificamente le persone razzializzate, trans e non conforming delle classi più basse, e ancora meno dovrebbe stupirci che non reclamassero una generica “libertà sessuale” ma che si riferissero ad una vera e profonda rivoluzione culturale femminista, ma soprattutto anticapitalista e decoloniale.
Essere queer è un modo di far politica non soltanto un insieme di rivendicazioni.Un esempio classico di approccio queer a temi di diritti civili è quello del matrimonio: di fronte ad una società straight che ti assimila proponendoti un matrimonio “egualitario” monogamo e patriarcale - che è la tipica offerta queer-friendly dei partiti del centrosinistra liberale - una posizione autenticamente queer sarebbe quella invece di ridefinire per ogni persona - etero comprese - un nuovo modello famigliare e una nuova struttura sociale, che sia sì in accordo con i desideri delle coppie omossuali monogame che vogliono figli ma anche con quelli delle costellazioni poliamorose, dei genitori single e di tutte quelle situazioni famigliari che ad ora non vengono riconosciute dalle istituzioni.
In realtà io credo che queste cose sian, tutto sommato, materia abbastanza nota e riconosciuta. Ciò che mi interessa far notare in questo contesto, e ciò a cui credo che forse non avrete mai pensato, è che di fronte ad una già sviluppata e complessa analisi linguistica della parola “queer” (di cui comunque si sente parlare ) non esiste quasi nessuna riflessione estensiva, nè alcuna traduzione possibile, pensata per il termine “straight”.
Ma come, “straight” non vuol dire “eterosessuale”?
In effetti, no. Come abbiamo visto, le radici etimologiche del termine ci riportano ad un’idea molto semplificata di drittezza, o per così dire, di normalità, ed è chiaro che in un contesto in cui ci si stia riferendo specificamente alla sessualità sia automatico assegnare la straightness all’eterosessualità. Però, a ben vedere, se la queerness non ha a che fare solo con la sessualità, non c’è motivo per cui questo dovrebbe valere per il suo speculare.
NOTA BENE: Prima dei Moti di Stonewall non esisteva nessuna (o meglio, non esisteva più) consapevolezza delle esperienze trans*, che venivano quindi bellamente assimilate a quelle gay e raggruppate anch’esse nel grande calderone della queerness. Questo implica, per riflesso, che nell’idea di straightness, oltre che l’eterosessualità, fosse già presente anche una necessaria componente di cisgenerità. Provando a dare una definizione più formale della straightness, potremmo a questo punto dire che consiste necessariamente quantomeno nella cis-eterosessualità.
Di più, si potrebbe aggiungere che se è vero - è lo è - che una delle più grandi minacce percepite dalla comunità straight è quella dell’attacco al modello moderno-occidentale degli affetti e della famiglia, che va protetta ad ogni costo, si potrebbe discutere sul fatto che forse la straightness, oltre che la cisgenerità e l'eterosessualità, richieda anche una certa adesione al modello relazionale monogamo. Si potrebbe andare ancora oltre, notando che anche tutti i corpi intersex, tutte le esperienze asessuali e tutte le esperienze nonbinary siano evidentemente queer, e che di riflesso la straightness si fondi anche su un forte binarismo di genere.
L’immagine che ne risulta, in sostanza, è che la straightness sia un concetto radicalmente legato all’idea di “normalità” e di “normatività” che si estende oltre le mura tutto sommato già spaziose della semplice eterosessualità, anche se spesso queste componenti semantiche vengono rese “implicite”.
L’analisi politica queer, infine, assegna alla straightness anche quel posizionamento socio-economico tipo del capitalismo liberale, vicino alle corporation e alle multinazionali, che crede nel riformismo moderato e via dicendo, sulla base di quel senso di intersezionalità che stava costruendosi nel discorso politico queer su ampia scala, e che individua la straightness, in fondo, anche nell’adesione a quell’American Dream che mai era stato veramente raggiungibile per dalle persone marginalizzate.
Appare importante notare che la dicotomia tra queerness e straightness è solo apparentemente binaria, poichè in questi termini mette a confronto uno specifico modello antropologico - quello della straightness, che mi sembra amiamo chiamare anche “valori tradizionali”, da queste parti - con tutte le possibili alternative ad esso, che vengono raggruppate sotto l’ombrello queer. “Fare politica queer” è un’espressione simile a “fare politica di destra” o “fare politica comunista”, ecc ecc… Per chi crede nel valore politico della queerness, io credo, è importante accettare che essa sia né più né meno che una normalissima ideologia politica, fatta di teoria e di prassi che si costruiscono andando a braccetto ed influenzandosi vicendevolmente. Come è sempre successo, insomma.
Tutto questo ha, in effetti, una valanga di implicazioni importanti, ma per ora ne riporterò solo tre, che spiegano finalmente il titolo dell’articolo:
“Queer” e “Straight” sono parole (entrambe) che assumono un significato radicalmente diverso a seconda dell’intenzione di chi le usa e del contesto in cui le usa. Hanno subito processi linguistici estremamente eterogenei e per questo spesso - quando vengono utilizzate senza spiegarne il senso che si attribuisce loro - generano forti confusioni e grandi fraintendimenti. Dal momento che la diversità di uso si riscontra sia dentro che fuori dalla comunità stessa, non avrei troppi timori nel dire che ad ora non esiste un significato specifico da attribuire a questi termini, ciononostante sarebbe sbagliato dire che queste parole non hanno significato: portano con sè una storia complessa e stratificata, che individua alcuni temi che intuitivamente riusciamo ad afferrare, anche se a volte non riusciamo a descrivere in maniera univoca.
Esistono persone Queer che sono Eterosessuali. Questa è una questione un po’ personale (sono eterosessuale), ma questi sono i fatti: punto primo, sono trans, e venitemi a dire che questo non mi rende automaticamente queer. Punto secondo, l’eterosessualità non è solo quella degli uomini cis sessisti e transfobici e delle donne cis che fanno battute sui cazzi piccoli. Non è solo l’eterosessualità del possesso e della misoginia, del sesso a missionario, della tristezza post-orgasmo o della moglie oggetto che fa la cena al marito che lavora 70h a settimana. Esiste un’eterosessualità non machista, inclusiva verso le persone non binary. Esiste un’eterosessualità che, se non è queer di per sè, di certo non è straight, né ti rende automaticamente tale. Esistono modi di essere etero che non perpetrano ciseteropatriarcato. C’è chi vuole convincerci del contrario, ma non è così.
Esistono persone LGBT che sono Straight. Questa invece - lo ametto - l’ho rubata. “The Pride has become a Straight Gay Movement” è una famosissima frase di Sylvia Rivera, madre del Pride (nonchè mia), che commentava inorridita il trionfale ingresso dei comitati pride gestiti da uomini cis bianchi con i soldi in quelle dinamiche di sponsor aziendali ed interessi economici che sarebbero poi secondo lei andate negli anni - così come poi è successo - ad annacquare le rivendicazioni politiche queer con richieste e rivendicazioni assimilazioniste, mirate a rendere “normali” le persone queer e non a rendere più queer la società stessa. Tristemente iconica su questo tema fu la visita di Sylvia proprio in Italia, in occasione del World Pride a Roma del 7 Luglio del 2000, raccontata così da Porpora Marcasciano ne “L’Aurora delle Trans Cattive”: Il Mit, dopo infinite peripezie attraverso una complicata burocrazia, era riuscito a riannodare i fili, portando a Bologna e successivamente a Roma una delle protagoniste della storica rivolta di Stonewall. Non avendo mezzi economici, passaporto e permesso di espatrio, portare Sylvia Rivera e Julia Murray (la sua compagna, Ndr) in Italia fu molto faticoso. Fu una lotta contro il tempo riuscire a farle giungere puntuali alla nostra settimana trans denominata “Transiti” e soprattutto al World Pride che si svolse a Roma il 7 luglio di quell’anno. Dopo aver trovato i soldi per viaggio e soggiorno dovemmo trattare con le autorità federali e con gli uffici competenti per ottenere documenti, permessi. E poi? Poi, paradossalmente, alla grande kermesse mondiale gli organizzatori non volevano farla parlare dal palco perché il protocollo non lo prevedeva. Soprattutto, non lo prevedeva la loro colossale ignoranza: non sapevano chi fosse Sylvia, cosa fosse il Pride, sopratutto non riuscivano ad inserire Sylvia in una costruzione di senso. A dire il vero la sciatteria gay non si era neanche accorta della presenza in Italia di colei che solo dopo morta fu riconosciuta come il simbolo stesso della liberazione. A onor di cronaca, gli unici a valorizzare la sua presenza furono le cosiddette “aree antagoniste”, lo spauracchio del movimento gay mainstream, che in esse riusciva a scorgere solo provocatori, violenti, guastafeste.
Provando a tirare le somme di tutta questa faccenda, la mia impressione è che la lingua italiana - seguendo ma anche amplificando un effetto già presente nella lingua d’origine - abbia innanzitutto assimilato una traduzione scorretta, o quantomeno incompleta, del concetto di “queer”, che viene utilizzato quasi sempre come un sinonimo di “appartenente alla comunità LGBT*” e venendo perciò completamente svuotato di quel carico politico che è stato necessario in primo luogo per rivendicare la parola stessa. Questo ha avuto l’inevitabile conseguenza di svuotare le nostre stesse rivendicazioni di quel carico intersezionale con cui sono nate. Penso alle vicende della mia città (Bergamo) in cui il comitato Pride ha dovuto lottare con le unghie e con i denti per affermare vicinanza ad un popolo evidentemente marginalizzato (cioè sul punto di essere letteralmente sterminato) come quello Palestinese, o a situazioni come quelle di Milano, in cui il Pride viene sponsorizzato da aziende che attivamente danneggiano il pianeta o sfruttano il lavoro minorile in altre parti del mondo.
L’altra impressione che ho è che perdere l’occasione di ragionare sulla straightness sia un po’ un modo troppo comodo per non identificare quali siano effettivamente le istituzioni contro cui stiamo lottando, con la conseguenza nuovamente di svuotare di efficacia le nostre lotte, che da specifiche richieste di diritti e di rinnovamento verso specifiche istituzioni diventano feste di slogan alla “love is love”, che per quanto condivisibili falliscono completamente nell’identificare che cosa serva per cambiare lo stato delle cose.
Sicuramente su questo tema ci tornerò, ma per oggi anche basta.
A presto, Luna Chloe